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La strana questione dei nomi
“Scusa, come hai detto che ti chiami?”
Una delle prime cose che impariamo iniziando a studiare il cinese e che i cinesi imparano appena giunti in Italia o quando iniziano a studiare l’italiano in Cina, è che abbiamo due concetti di “nome” molto diversi.
In Cina non esiste una categoria di “nomi propri di persona”, quelli che insegnano da noi ai bambini alle elementari quando iniziano a fare i primi esercizi di analisi logica e grammaticale, semplicemente praticamente ogni carattere del dizionario cinese può essere usato come “nome proprio di persona” e i futuri genitori, in Cina, si danno un gran da fare per scegliere il nome del nascituro/a.
La scelta del nome è una questione estremamente importante e i caratteri che vengono scelti come nome proprio non solo devono suonare bene, ovvero non devono avere omofoni con dei significati poco piacevoli, essere graficamente belli, ma e soprattutto devono avere un bel significato, un augurio, una speranza per come vorrebbero che il futuro figlio/figlia diventi crescendo.
I nomi scelti possono essere talmente ben augurali da far sì che i figli, cresciuti e resosi conto di esser molto diversi da ciò che i loro genitori si aspettavano, sia costretti a cambiare nome.
Per noi italiani pronunciare i nomi cinesi alle volte può essere difficoltoso, finché si tratta della signora Lin il problema non è troppo grande, ma se incontriamo il signor Xu Jie già potremmo avere qualche problema, ecco perché quando si presentano agli occidentali, spesso, i cinesi scelgono un nome inglese o se vivono in Italia in pianta stabile ne trovano uno italiano.
Per noi italiani, quando iniziamo a studiare il cinese, la situazione è analoga. Per i cinesi è difficile ricordare i nostri nomi che, tra l’altro, sono privi di senso, sono “parole nuove” da memorizzare e all’inizio è senz’altro difficile, perciò già ai primi giorni di lezione di cinese i professori madrelingua si divertono a darci dei “nomi cinesi” che sono, però, ancora troppo poco cinesi … non fanno altro che prendere il nostro nome e traslitterarlo in sillabe che corrispondono a caratteri che letti insieme suonano simili al nostro nome … quello che fanno i tatuatori, più o meno! Quindi torniamo a casa tutti felici con dei presunti nomi cinesi di 4-6 caratteri per scoprire, la prima volta in Cina o parlando con gli amici cinesi, che un nome cinese è composto al massimo da tre caratteri: 1 per il cognome e uno o due per il nome proprio.
Per questo chi continua a studiare la lingua e la cultura cinese, chi ha contatti frequenti con gli amici cinesi finisce per avere quello che a me piace chiamare un “nome cinese vero” di due/massimo tre caratteri e con un bel significato che suoni bene e che dica qualcosa su di lui. È una emozione particolare quella di trovare un nome cinese che senti tuo, che ti sta bene e che magari, come nel mio fortuito caso, suona anche simile a quello italiano che non guasta per girarsi quando si viene chiamati.
Un insegnante da cui ho imparato molto amava dire che “cambiare da una lingua all’altra significa cambiare forma mentis, cambiare animo” io credo che ci sia del vero in questo, che quando raggiungiamo un livello molto alto in un’altra lingua sviluppiamo una sorta di “altro io” e avere un altro nome è, in qualche modo, una conferma di questo.
Perché tatuarsi il nome in cinese è una pessima idea
Capita molto spesso, soprattutto d’estate, in spiaggia, di vedere italiani con dei caratteri cinesi tatuati da qualche parte, una caviglia, il polpacci, la spalla, l’avambraccio. La deformazione professionale vuole che sia impossibile non cercare di leggere che caratteri siano, perciò spesso finiamo per cercare di capire perché quella persona abbia voluto un nonsense inciso sul suo corpo.
Bene, la maggior parte delle volte scopriamo che quei caratteri, messi uno dopo l’altro e pronunciati ad alta voce, in qualche modo, si avvicinano al suono di un nome italiano … ma non hanno alcun senso in cinese. O peggio ancora, sono caratteri a cui è stata attribuita arbitrariamente una corrispondenza con una lettera dell’alfabeto occidentale del tutto inesistente e priva di logico fondamento, tranne per il fatto che, magari, quel carattere, nella pronuncia trascritta in alfabeto latino, inizia con quella lettera… ma da qui a dire che 康 (salute, benessere, come in 健康) pronunciato kāng sia la lettera “K” in cinese ce ne vuole davvero davvero molto.
Quello che i tatuatori fanno, nella migliore delle ipotesi, è prendere una bella tabella e cercare dei caratteri cinesi la cui pronuncia alfabetica si avvicini a quella delle sillabe che formano il nome italiano e tatuarveli uno dopo l’altro, perciò, badate bene, quei bei “disegnini” (che alle volte non sono nemmeno belli perché chi li scrive non ha idea di quale sia il giusto ordine dei tratti per farlo…) sono tutto all’infuori del vostro nome cinese.
Nei casi peggiori, ci è capitato di dover tentare di non dire che un tale di nome Valerio aveva un bel tatuaggio cinese, ma quel bel disegno 碗 , che si pronuncia wǎn, significa “ciotola” ed è quello usato per designare tipicamente le piccole ciotole cinesi in cui si mangia il riso.
Se non volete quindi finire per avere una bella ciotola di riso tatuata sul corpo per tutta la vita, la cosa migliore che possiate fare è tatuarvi qualcos’altro o chiedere a qualche amico cinese di inventare un nome cinese, vero, per voi!
L'Interpretazione Simultanea: questa sconosciuta
L’interpretazione simultanea è arte e tecnica al tempo stesso[1].
(Zhong, 2008 b:167)
L’interpretazione simultanea (IS) è una forma d’interpretazione[2] che prevede l’utilizzo di apparecchiature consistenti, nella maggior parte dei casi, in auricolari o cuffie e microfono inseriti all’interno di un più ampio sistema elettronico che collega la cabina in cui lavora l’interprete di simultanea ai microfoni e alle cuffie a disposizione degli oratori e del pubblico. Si tratta di una forma d’interpretazione molto complessa che prevede la produzione, da parte dell’interprete, del testo in lingua d’arrivo (TL) in contemporanea con quello in lingua di partenza (SL) prodotto dall’oratore.
L’AIIC (Association Internationale d’Interprètes de Conférence) definisce l’IS nei seguenti termini:
In simultaneous mode, the interpreter sits in a booth with a clear view of the meeting room and the speaker and listens to and simultaneously interprets the speech into a target language. Simultaneous interpreting requires a booth (fixed or mobile) that meets ISO standards of acoustic isolation, dimensions, air quality and accessibility as well as appropriate equipment (headphones, microphones). (AIIC’s Conference Interpretation Glossary[3])
L’IS può essere definita come un fenomeno cognitivo e linguistico: cognitivo per i numerosi e complessi processi di elaborazione mentale e le molteplici abilità cognitive che vengono attivate contemporaneamente e linguistico perché le informazioni oggetto di tali processi sono, essenzialmente, di tipo linguistico (Anderson, 1994). Perciò quando si parla d’interpretazione simultanea ci si riferisce ad un complesso sistema di procedimenti che permettono all’interprete di produrre in tempi molto brevi[4] una resa in TL del messaggio pronunciato dall’oratore pochi istanti prima nella SL.
Le principali attività che l’interprete si trova a intraprendere simultaneamente o in rapida successione sono nell’ordine: l’ascolto del testo nella lingua di partenza; la comprensione di quanto ricevuto; l’attivazione di processi cognitivi tra cui l’utilizzo della memoria a breve termine che permette di recuperare le informazioni linguistiche appena ricevute e la sua interazione con quella a lungo termine e con le conoscenze pregresse in essa immagazzinate (sia a livello contestuale dell’evento in cui l’interprete si trova che in termini di cultura generale e conoscenze enciclopediche); e infine la codifica del messaggio elaborato e la produzione nella lingua d’arrivo[5].
Potrebbe essere sorprendente pensare che quanto appena elencato avvenga nel giro di pochi secondi o millesimi di secondo e che le attività di ascolto ed enunciazione siano continuamente sovrapposte; vi è sempre, nel corso di un’interpretazione simultanea, un flusso continuo in cui i due codici linguistici (la lingua di partenza e quella di arrivo) s’incrociano incessantemente. A questo si aggiungono altri due fattori di fondamentale importanza: l’interprete deve sottostare al ritmo imposto dall’oratore cercando di mantenere il décalage al minimo indispensabile e seguirlo in un discorso di cui non sa niente o quasi e deve farlo senza aver mai un’ampia visuale su quanto verrà dopo. Inoltre, egli deve riuscire a monitorare la sua produzione, correggersi ove necessario e controllare che il suo discorso sia grammaticalmente e stilisticamente corretto nella lingua d’arrivo (Anderson, 1994).
Nel portare avanti tutte queste operazioni concomitanti l’interprete tenta di separare la sua attenzione e di distribuire le risorse cognitive a sua disposizione nel modo più equo possibile tra le attività in cui viene coinvolto; per far ciò egli deve dosare la quantità di energia totale a sua disposizione (Gile, 1985).
Simultaneous Interpreting is not to establish equivalents between two languages, but to communicate the meanings of a speech being heard.
(Anderson, 1994:101)
La definizione elaborata da Anderson getta luce su un nodo essenziale del processo d’IS e su ciò che lo rende possibile: un interprete di simultanea non può e non deve mirare a tradurre ogni singola parola pronunciata dall’oratore, anche perché così facendo perderebbe di vista il fine ultimo dell’interpretazione stessa, quello di trasmettere il senso e non le parole (Seleskovitch, 1976)[6]. In base a questa concezione di fondo è facile concludere, come hanno mostrato molti studi traduttologici (Quine, 1960; Keenan, 1978), che una traduzione o un’interpretazione, nel caso specifico, non può mai essere perfetta in termini assoluti, ma solo abbastanza buona da assolvere in pieno il suo fine pratico in una determinata circostanza.
Simultaneous can be compared to playing the piano (…) the pianist has to learn the right hand, then the left, then learns to coordinate both, in much the same way as the interpreter learns to listen to two speeches at the same time.
(Jones, 1998:70)
La metafora del pianoforte sembra raffigurare alla perfezione la complessità dei processi con cui l’interprete di simultanea ha a che fare e riesce anche a descrivere il prodotto di una buona prestazione in simultanea: come chi ha imparato a suonare il piano riesce a produrre melodie armoniose, così un interprete che controlla la sua resa senza per questo prestare meno attenzione all’input che riceve riesce a produrre un testo in lingua d’arrivo corretto, adeguato e piacevole da ascoltare per il pubblico.
[1] 同声传译既是一门艺术,又是一门技术 (tóngshēng chuányì jí shì yī mén yìshù, yòu shì yī mén jìshù). La traduzione dal cinese di questo estratto e degli altri presenti nell’elaborato, qualora non diversamente specificato, è dell’autore.
[2] L’interpretazione è una forma di traduzione che viene effettuata oralmente traducendo del contenuto semantico di una lingua di partenza in un suo corrispondente in una lingua d’arrivo. La definizione che fornisce Viezzi (2008:35) di questa attività pare molto calzante: “l’interpretazione può essere definita come un servizio che si esplica attraverso un atto di comunicazione e prende la forma di un’attività interlinguistica e interculturale di produzione testuale”.
[3] Disponibile in: http://www.aiic.net/glossary/default.cfm?ID=262&letter=S
[4] È necessario sottolineare come l’aggettivo “simultanea” possa dare un’idea fuorviante del processo stesso: è impensabile, infatti, ritenere che si possa interpretare nell’istante stesso in cui l’oratore pronuncia una frase, anche in IS vi è sempre una distanza minima tra la produzione dell’oratore e la resa dell’interprete, il cosiddetto décalage.
[5] La complessità delle attività che gli interpreti di simultanea eseguono ha portato molti interpreti e ricercatori nell’ambito degli Interpreting Studies a elaborare dei modelli per descriverne le caratteristiche. Cfr. Pőchhacker (2004).
[6] Si fa riferimento alla théorie du sens elaborata da Seleskovitch e Lederer presso l’ESIT School di Parigi che ha avuto un grande valore e molta importanza nel panorama degli Interpreting Studies e pone l’accento sull’importanza di trasmettere il “senso” dell’oratore evitando un approccio parola per parola. Per una trattazione più ampia cfr. par.1.5.2 p. 21.